BAR SALI E TABACCHI
Dentro era fresco. Fui costretto a socchiudere gli occhi per abituarli alla penombra, accecato dalla luce rovente del mezzogiorno. Il vecchio era seduto in un angolo a fissare il vuoto. C’era solo lui in tutto il locale. Perso nei suoi pensieri, non alzò nemmeno la testa per vedere chi era entrato. Dall’espressione, si sarebbe detto che da anni se ne stava con il cervello in stand-by. Teneva le mani sulle cosce, quasi all’altezza delle ginocchia, e si succhiava le gengive al di sotto della dentiera.
Mi guardai attorno, stupito che ci fossero ancora rivendite del genere. Lì dentro il tempo sembrava essersi fermato agli anni Cinquanta. Anche l’odore che stagnava nell’aria era quello delle drogherie di una volta, che tenevano di tutto, dal lucido da scarpe ai chewingum tondi dentro l’ampolla di vetro. Ma quello che mi serviva non erano chewingum né lucido da scarpe. Avevo poco tempo. Non sapevo quanto, ma di sicuro non molto. I ragazzi mi stavano dietro, e non gli sarebbe sembrato vero di vedere la mia macchina ferma sul lato della strada. Si sarebbero fatti quattro risate, tirando fuori l’attrezzatura. Non avevo idea di quanto fossi riuscito a distanziarli, ma certo non di tanto. E non potevo sperare che sbagliassero strada: c’era solo quella, stretta e deserta, attraverso le campagne abbrustolite da sole.
– Mi scusi, – dissi al vecchio.
Lo vidi ruotare leggermente la testa, ma non cambiò espressione.
– Ho avuto un guasto alla macchina, a mezzo chilometro da qui. Volevo sapere se da queste parti c’è un garage o una pompa di benzina dove posso trovare un’auto in affitto. Ho una certa fretta.
Ci mise un’eternità a rispondere.
– Niente garage, – disse alla fine, con una voce rauca e acuta. – E il paese più vicino è a otto chilometri.
– Sa se per caso c’è qualcuno, qua attorno, che potrebbe noleggiarmi un’auto?
Il vecchio scosse adagio la testa.
– Che io sappia, nessuno.
Il sangue mi centrifugava dentro. Se non trovavo il modo di filarmela da lì ero spacciato.
– Senta, – riattaccai, cercando di mantenere la calma, – ho un problema grave. Diciamo pure che è questione di vita o di morte. Mi serve a tutti i costi un mezzo. Possibile che da queste parti non ci sia nessuno che può prestarmi una macchina?
Il vecchio mi fissava. Mi accorsi che la sua espressione si era fatta più attenta. Come se la sua coscienza fosse emersa lentamente da un oscuro mondo subacqueo.
– Io ho un furgone, – biascicò. – Mi spieghi perché ha detto che è questione di vita o di morte. Potrei accompagnarla io fino in paese, se è così urgente.
La paura mi salì al cervello sotto forma di furore. Avevo i minuti contati e quel vecchio mi faceva perdere tempo. Avevo ancora la pistola, infilata nell’elastico dei pantaloncini estivi, sulla schiena, sotto la maglietta sportiva che avevo indossato al volo prima di battermela. Era scarica, ma pensai che per spaventare quel rimbambito potesse bastare. La tirai fuori con un brusco gesto teatrale, proprio come i cattivi dei film, e gli ringhiai, puntandogliela a dieci centimetri dalla faccia: – Senti, nonno, mi sono rotto le palle! È meglio se adesso tiri fuori le chiavi del furgone.
Lui mi fissò senza dire una parola né fare un movimento. Come avessi parlato una lingua sconosciuta e nelle mani avessi avuto una lattina di birra, anziché una pistola puntata dritta su di lui. Tranquillo, l’avrei detto, se non fossi stato convinto che era totalmente rimbecillito dagli anni, dal vino e da quel sole del cazzo che picchiava sulla testa come un martello, in quei posti dimenticati da dio. Sentii il rumore di un’auto nel silenzio assoluto della campagna, ancora lontano, ma da come ruggiva il motore capii subito che si trattava di loro. La schiena mi diventò di ghiaccio.
– Merda! – dissi a denti stretti. – Sono già qui!
Fu allora che il vecchio fece una cosa che mi lasciò per un attimo completamente spiazzato. Indicò con un cenno una porta, in un angolo del locale, e disse: – C’è una botola dentro lo sgabuzzino, nel sottoscala. Infilati lì. – Poi, visto che io rimanevo immobile: – Svelto!
Mi sentii un cretino, con quell’arma puntata contro la sua faccia. La rificcai in cintura e volai verso lo sgabuzzino, pensando che forse non era poi così rincoglionito come sembrava. Mi ero appena chiuso la porticina alle spalle, quando sentii il rumore di ruote che slittavano in frenata sulla ghiaia del cortile. Tastai velocemente il pavimento, cercando la botola. Grumi di polvere che si incastravano sotto le unghie. Da fuori mi arrivò il suono delle portiere che si aprivano. Sollevai il portello e mi calai dentro, sforzandomi di non fare rumore. Poi mi richiusi il coperchio sulla testa e rimasi immobile nell’oscurità completa.
Sentii lo scampanellio della porta d’entrata. Poi la voce dell’albanese che chiedeva al vecchio: – Tu ha visto passare uno, qua fuori?
Ci fu una lunga pausa. Immaginai il vecchio che fissava l’albanese succhiandosi la dentiera, come aveva fatto con me pochi minuti prima. Pensai che poteva tradirmi. Il cuore cominciò a battere forte contro le costole. Ogni pulsazione, un colpo sordo nei timpani. Mi prese il terrore di vederli sollevare il portello, guardarmi dall’alto con quelle loro facce da stronzi e spararmi come a un sorcio in trappola.
– No, mi dispiace, – sentii rispondere il vecchio.
– Tu è sicuro, sì? Io parla di un tipo a piedi, trenta anni più o meno. Ha pantaloncini corti e maglietta di sport. Se ha visto non puoi sbagliare.
– Qua non è entrato nessuno. Se fuori è passato qualcuno non lo so.
Un altro scampanellio.
– Cazzo stai facendo?
Era il Palla. L’albanese gli rispose: – Dice che non ha visto nessuno.
– Ah no, eh? Guarda che se ci prendi per il culo… – il Palla lasciò in sospeso la sua minaccia e disse all’albanese: – Diamo un’occhiata in giro.
Li sentii frugare, sbattendo le porte e gli oggetti, con quel loro modo di fare da padroni. Arroganti con chiunque non fosse più forte di loro. Di nuovo ebbi paura che mi scovassero, in quel buco dove stavo rintanato, e mi sentii soffocare. La porta dello sgabuzzino si aprì bruscamente. Il cuore mi si fermò, sospeso sull’abisso. Trattenni il respiro. La porta si richiuse. Sentii le gambe farsi di polpa fradicia.
Passò un’eternità. Frugavano dappertutto, spostando e ribaltando, tanto per sfogare la rabbia. Finalmente si fermarono.
Il Palla disse: – Attento agli scherzi, nonno. Noi ci facciamo un giro e torniamo più tardi. Te tieni gli occhi aperti. Se vedi il nostro uomo cerca di trattenerlo qui con qualche scusa. Poi magari salterà fuori un bel regalino. Ricordati, è in pantaloncini corti e scarpe da ginnastica.
L’albanese intervenne: – Io già detto a lui come è vestito.
– Tanto meglio. Allora ci siamo capiti, eh?
Sentii ancora una volta il campanello della porta. Mi arrivarono le loro voci ringhiose, da fuori, ma non riuscii a capire cosa dicevano. Poi i botti sordi delle portiere e il motore dell’auto che si accese con un rombo. Partirono fra il rumore della ghiaia che andava a sbattere contro il telaio dell’auto.
Rimasi acquattato ancora per qualche istante. Il puzzo acido del mio sudore che saliva dalle ascelle fradice.
Sentii la porta dello sgabuzzino aprirsi. La botola si sollevò.
– Puoi venire fuori adesso.
Mi aggrappai e mi tirai su. Le braccia erano fiacche, nemmeno avessi fatto cinquanta flessioni di fila.
– Se ne sono andati? – gli chiesi.
– Hanno lasciato uno di guardia.
– Allora sono fregato.
Il vecchio sgranò gli occhi. – E la pistola? Perché non la adoperi?
– Niente pallottole, – ammisi. – E quello là fuori, invece, ce l’avrà carica e con il colpo in canna.
Il vecchio mi guardò, in silenzio, con i suoi occhi sbiaditi e infossati fra le rughe.
– Potrei scappare da una finestra sul retro, – pensai ad alta voce.
– Il furgone, però, è sul davanti. Nella baracca a lato del cortile, – precisò lui. – Non ce la puoi mica fare, a entrarci senza che il tizio qui fuori ti veda. E a piedi mi sa che non arrivi lontano. Quelli ti staranno cercando qua attorno.
– Devo provare lo stesso.
– No, – disse il vecchio, guardandomi negli occhi. – Non servirebbe a un bel niente. – Parlava più in fretta, adesso. E il suo sguardo era fisso nel mio. – Sai cosa facciamo? Ascoltami bene. Ti do i miei vestiti e quel cappello lì, – indicò un cappello sformato, dalle tese cadenti. – Ti leghi un fazzoletto al collo in modo da coprirti la faccia. Esci. Passi davanti al tipo che sta di guardia, e come se niente fosse vai nella baracca. Poi salti sul furgone e parti.
Lo guardai sbalordito. Non sapevo cosa rispondergli.
– Ma è assurdo. Quello là fuori mi riconoscerà.
– Non è di quelli che sono entrati e a me non mi ha visto.
Io stavo per fare un’altra obiezione ma lui mi anticipò. – Ti metti addosso la mia roba, – disse. Aveva un tono, nella voce, che non ammetteva repliche. Come fosse abituato a farsi obbedire, chissà da chi. – Gli avranno detto che qua dentro c’è un vecchio rimbambito, da solo. Non ci farà caso. Se stai attento a camminare rigido e un po’ curvo può anche andarti bene.
Non mi diede il tempo di pensarci. Si levò la giacca e cominciò a sbottonarsi i calzoni.
– Lasciami la tua roba, – borbottò, mentre si sfilava le scarpe. – Non ho nient’altro, qua, e non mi va di rimanere in mutande.
Gli obbedii come fosse stato mio padre e io un bambino di otto anni. Mi infilai i suoi vestiti in fretta. Mi calcai il cappellaccio fin sugli occhi, in modo da coprirmi la faccia. Faceva un caldo d’inferno, con quella roba pesante addosso. Ricominciò a colarmi il sudore.
– Uscendo dall’aia gira a sinistra, – mi diceva lui sbuffando, mentre si levava le braghe. – Ho visto che loro sono andati dall’altra parte. Tu torna indietro. A un paio di chilometri vedi un capannone con davanti delle macchine agricole. C’è una strada bianca sulla destra. Però devi stare attento, perché rimane subito dietro alla curva, e arrivando veloci si rischia di tirare dritto. Passi un vecchio macero e arrivi a una casa colonica. Le giri attorno e prendi la cavedagna sulla destra. Vai fino in fondo. Da lì sbuchi proprio sulla statale. Se giri a destra arrivi all’autostrada, a sinistra invece ritorni verso la città.
Mi passò uno scolorito foulard rosso scuro, a pois gialli. Me lo annodai al collo. Sapeva di cherosene e di polvere. Lo osservai mentre indossava a fatica la mia maglietta sopra la sua canottiera infeltrita. Si infilò le scarpe da ginnastica, allacciandole con cura, come avesse dovuto fare una corsa. Poi tornò a sedersi dov’era prima e riprese a biascicare la dentiera con lo sguardo fisso nel vuoto. Pareva di nuovo distante. Perduto chissà dove.
– Guardi che quelli…
– Ti vuoi muovere? – mi interruppe lui. – Il furgone è aperto e le chiavi sono nel cruscotto.
Mi voltai adagio. Le orecchie mi ronzavano. Sulla porta mi girai ancora una volta. Aveva di nuovo le mani sulle ginocchia, e la stessa faccia di quando ero entrato. Era ridicolo, con addosso quella maglietta azzurra e rossa che gli tirava sulla pancia, e i calzoncini corti da ginnastica che gli lasciavano scoperte le gambe glabre e bianchicce. Sembrava una specie di clown, molto triste, che si era dimenticato la parte. Guardava dalle parti del pavimento, ma giurerei che non lo stava mettendo a fuoco.
Appena fuori, l’aria calda mi riempì i polmoni. Con la coda dell’occhio vidi una sagoma staccarsi da uno degli alberi sulla sinistra dell’aia. Quando uscì dall’ombra lo riconobbi. Era Benassi. Evitai di guardare nella sua direzione. Mi muovevo adagio, rigido, come mi aveva suggerito il vecchio. Poi cominciai a tossire, scatarrando, per potermi tenere coperta la faccia. Camminai piano verso la baracca, a piccoli passi che durarono un’eternità. Sentivo lo sguardo di Benassi sulla schiena. Non sapevo cosa stesse facendo. Forse mi seguiva, per vedere dove andavo. Forse mi stava già puntando addosso la pistola.
Arrivai alla baracca di lamiera ondulata. Intravidi il muso del furgone nella penombra. Era un vecchio Renault color sabbia, pieno di ammaccature. La portiera di sinistra era attraversata da un lungo graffio arrugginito. La aprii con il fiato sospeso. Sbirciai fuori. Vidi che Benassi si era appoggiato di nuovo al suo albero e stava accendendosi una sigaretta. Guardava nella mia direzione, ma da fuori non poteva vedere cosa stavo facendo. Salii sul furgone e richiusi con cautela lo sportello. Avevo la schiena fradicia. Il sudore mi colava a rivoli sulla fronte scivolando da sotto il cappello. Trovai le chiavi inserite nel cruscotto, proprio come aveva detto il vecchio. Pregai che il motore partisse al primo colpo. Girai la chiavetta. Sei secondi -grossomodo sei secoli – poi sentii che prendeva, e accelerai. Sollevai la frizione di colpo e il furgone scattò in avanti. Rimasi accecato dalla luce violenta del cortile. Attraverso il vetro polveroso del parabrezza vidi Benassi scuotersi, gettare via la sigaretta e infilare una mano sotto il giubbotto. Pigiai a fondo l’acceleratore, sterzando con tutta la forza che avevo nelle braccia, mentre il furgone slittava sollevando grandinate di ghiaia. Sentii uno sparo, poi un altro. Continuai a spingere sull’acceleratore. Il motore urlava. Io pigiavo il pedale come se avessi dovuto farlo uscire da sotto la scocca. Forse ci furono altri spari, ma non ne sono sicuro.
Imboccai la strada sbandando col culo, mentre cambiavo la marcia con un rapido movimento del polso. Guardai nello specchietto retrovisore. Dietro di me vidi soltanto un’enorme nube di polvere e sabbia.